Il volontariato (come il lavoro) non è gratis

 Di Paola Villa (Presidenza ACLI Nazionale)

Il termine volontariato è un termine ambiguo. Che contiene molte connotazioni. In qualche modo spesso è contrapposto al termine lavoro (termine in parte altrettanto ambiguo, oggi, meno ambiguo storicamente). Provo a tenerli accostati un poco per provare a definirli simmetricamente.

 

La prima polarità che viene in mente accostando lavoro e volontariato è: il lavoro ha una retribuzione. Il volontariato è gratis. Però, se devo dire, in entrambi i casi mi pare che sia vero solo parzialmente. 

 

Il lavoro è qualcosa che permette di mantenere sé stessi e la propria famiglia. E’ giusto riconoscerlo. Soprattutto oggi. Non farlo sarebbe una poesia “da ricchi” e “da garantiti”. Però il lavoro è anche molto altro. Il lavoro (per un cristiano) è un modo per contribuire a completare la creazione. Il lavoro (per tutti, cristiani e non) è un modo per trovare un proprio posto nella società. Per cercare di dare il proprio contributo per migliorarla. E’ il luogo principale delle nostre relazioni sociali. Per lavorare serve impegno, fatica, studio… Il lavoro riesce meglio se combacia (in poco o in tanto) con le nostre passioni, aspirazioni, con i nostri talenti e carismi….

 

E il volontariato? E’ l’opposto? No, il volontariato è la stessa cosa. E’ un modo per contribuire alla creazione. E’ un modo per trovare un posto nella società. E’ un modo per dare un contributo per migliorarla. E’ un luogo di relazione. Di impegno, di fatica, di studio… E anche il volontariato riesce meglio se combacia con le proprie passioni, aspirazioni, con i nostri talenti e carismi…

 

Ma, allora, dove sta la differenza? A me pare che la principale differenza stia nel tratto di libertà che c’è nel volontariato più che nel lavoro. In qualche modo ognuno di noi è obbligato a lavorare. Mentre non è obbligato a fare volontariato. La scelta di impegno volontario quindi contiene tutte le stesse caratteristiche del lavoro. Ma parte da una scelta di volontà. Non da una necessità. Non da una regola. Non da un obbligo. Scelgo di farlo perchè voglio farlo. Perchè, liberamente e consapevolemente, scelgo.

 

E’  anche la radice stessa della parola “volontariato” a richiamare l’idea di volontà prima ancora che di presenza o assenza di retribuzione. Ma soffermiamoci un attimo anche sul binomio del “gratuito” o “retribuito”. Si potrebbe aprire una parentesi infinita. Noi usiamo questo concetto perchè viviamo in un momento storico in cui si tende a riconoscere il valore solo in termini economici. Ma, in realtà, il lavoro non è retribuito solo con i soldi ma anche con un ritorno di senso, con le relazioni, con il benessere che dà. E ne è prova il fatto che le persone che si trovano a perdere il lavoro non perdono solo l’entrata economica (che magari, per un primo periodo tra sussidi o altri sostegni familiari potrebbe anche esserci ancora) ma perdono senso, perdono fiducia, perdono orientamento e prospettiva. Perdono identità.

 

Allo stesso modo (forse in misura maggiore sempre per quel dato di libertà nella scelta) il volontariato non è gratis. In nessuno dei due sensi. Non è gratis perchè al volontario costa (fatica, impegno….) Non è gratis perchè al volontario torna molto. Questa non è poesia. E’ realtà. Credo che chiunque abbia fatto un’esperienza di volontariato possa capire questo. Ma, se posso, provo a portare un dato biografico. Io ho sempre fatto da quando avevo 18 anni un’esperienza di volontariato nei campi profughi in Slovenia con persone provenienti dalla Bosnia. L’ho fatto “nel tempo libero”, in estate, tra un esame e l’altro in università etc… Poi, ad un certo punto, dopo qualche anno che lavoravo, è scoppiata la guerra in Kosovo. E mi è stata offerta la possibilità di fare una missione in Albania per preparare l’esperienza estiva di gruppi di volontari. E sono andata. Quando ero in Albania è stata (a sorpresa) firmata la pace in Kosovo. E i profughi hanno voluto rientrate. E io mi sono trovata ad aiutarli a organizzare il viaggio di ritorno e a rientrare con loro in un paese a pochi giorni dalla guerra. Quando sono entrata in Kosovo è emersa la possibilità di restare lì e supportare il progetto che le Acli hanno deciso di impostare per la prima emergenza. E io ho scelto di restare. Io ricordo perfettamente che quando ho scelto di farlo, mandando una lettera in Italia tramite un telefono satellitare per chiedere aspettativa, l’ho fatto per me. Non per loro. Per loro ero sicura che se non ci fossi stata io ci sarebbe stato qualcun altro. Ma per me io sentivo che era un’esperienza che non volevo perdere. Che mi avrebbe dato, in termini umani, professionali, associativi e quanto altro…. tantissimo (e non mi sono mai pentita di quella scelta).

 

Ma non serve per forza andare in giro per il mondo per posti in guerra o licenziarsi dal lavoro. Ovviamente. Ci sono mille modi di fare scelte volontarie e di vivere l’esperienza del volontariato. Ci sono mille carismi e mille sensibilità. Ognuno ha la sua. Qualche anno fa’ come Acli abbiamo dedicato una Conferenza Organizzativa al tema dell’azione volontaria (una conferenza organizzativa è come un congresso, ma non si votano le persone ndr). In quella sede mi ricordo che in un intervento alla fine di un dibattito emerse l’idea di prendere in esame la parabola del Buon Samaritano. Noi siamo abituati a pensare al “volontario” come al Buon Samaritano, appunto. A colui che raccoglie la persona sulla strada e lo porta alla locanda e lo affida alle cure del locandiere. Ma esiste sicuramente una buona dose di impegno e azione volontaria nell’azione del locandiere stesso. Che accudisce al malato, perchè viene pagato, ma anche forse oltre il tempo e il modo richiesto (e qui c’è tutto il nodo di riflessione sulle azioni di cura e sull’esperienza delle colf). Oppure c’è che a fronte di quel fatto un modo di fare volontariato che potrebbe essere quello di andare a vedere se su quella strada le aggressioni sono frequenti, o di organizzare un momento di mobilitazione per riflettere assieme su questo fatto. O di organizzare un’animazione notturna con feste e banchetti che in qualche modo renda più sicura la strada… Ci sono tanti modi di essere volontari e di vivere il volontariato. Ad esempio l’identità stessa delle Acli porta ad esperienze più simili a cose di questo tipo piuttosto che a volontariato assistenziale diretto. Secondo me non c’è una graduatoria tra un volontariato migliore e uno peggiore. O tra un volontariato più volontariato di altri. Il nodo è sempre lo stesso: mobilitarsi, per una libera scelta, che parte da motivazioni personali che possono essere diverse ma che portano ad un’azione giocata in comune con altri. Per provare a fare qualcosa di positivo per sé stessi e per gli altri.

 

E qui arrivo a quello che mi pare l’ultimo nodo: gli altri. Siamo abituati a vedere “gli altri” (specialmente quelli in maggiore situazione di bisogno o difficoltà) come i destinatari della nostra azione volontaria. Ma se noi concepiamo il volontariato come un’azione finalizzata, in qualche modo, al cambiamento di una situazione. Chi vive sulla propria pelle l’ingiustizia e l’inequità della situazione può essere il più motivato all’azione di cambiamento. E quindi può essere il primo alleato, non il destinatario passivo. L’esempio più eclatante in questo senso mi pare quello legato all’immigrazione. Siamo abituati a pensare agli immigrati come a portatori di problemi.  Mentre hanno competenze, storie, motivazioni e bisogni che servono a noi per migliorare la nostra società e condizione. E non parlo dei saperi specifici, dei singoli lavoratori. Parlo delle competenze trasversali. Del sapere stare a cavallo tra frontiere. Del sapere maneggiare non solo lingue ma culture. Del portarsi addosso la capacità di tenere assieme luoghi distanti e di appartenere ad entrambi. E se riuscissimo a vedere che anche noi siamo portatori di bisogni e anche loro sono portatori di risorse? Se provassimo a non stare su due lati diversi ma ad affiancarci ed allearci?